IDROPOLTRONA

Legno, compensato, alluminio, acciaio, ferro, cotone. Peso 10 kg.

Omobono Irrequieti nacque a Gussate, in provincia di Brescia, nel 1896, ultimo dei quattro figli di Giulio Cesare, un accordatore di strumenti musicali. La madre, Stella Gardone, era l’ultima erede di una ricca famiglia di possidenti terrieri.
Nel 1909 gli Irrequieti sono scossi dalla notizia dalla morte del Marchese Costa de Beauregard, proprio mentre Giulio Cesare, accordatore di fiducia del nobile francese, si trova nella dimora parigina. Il tredicenne Omobono, alunno modello, nel diario, sul quale ha cominciato a registrare gli episodi più importanti della sua vita fin da quando aveva cinque anni, ricopia un articolo dalla prima pagina del Figaro che gli ha recato il padre da Parigi.

Le roi des Bulgares a chargé M. Stancioff, ministre de Bulgarie à Paris, de déposer en son nome une couronne sur le cercueil du marquis Costa de Beauregard et d’offrir ses condoléance à la famille du défunt.

Nella tarda estate dello stesso anno Omobono Irrequieti si appassiona all’aviazione dopo aver assistito al grande raduno di Montichiari del settembre 1909. Nel suo diario annota brevemente: “Il cielo meraviglioso era reso ancor più meraviglioso da queste macchine che compiono grandi balzi e poi spiccano il volo. Tra questi nuovi angeli anche il temerario Luis Bleriòt. In piedi accanto a noi stava un signore con le orecchie grandi e il suo sguardo cupo mi metteva a paura, cosicché mi strinsi più forte al babbo. Il signore stava con il naso in su come tutti noi, ma ogni tanto calava il volto e scriveva qualcosa su un piccolo taccuino. A un tratto si accorse che gli guardavo le orecchie e mi disse una frase che non compresi, perché era in tedesco.”

Grazie al suo entusiasmo e alla sua curiosità venne rapidamente a contatto con i pionieri del volo italiano. Vive con tutta la pienezza del suo essere in un’atmosfera caratterizzata dal coraggio e dalla generosità che ben si addicono al suo carattere romantico. La sua abilità di accordatore, appresa dal padre, fu preziosa per i piloti di questi velivoli la cui resistenza strutturale e la capacità di manovra era dovuta in gran parte a un complesso intrico di tiranti di fili e cavi d’acciaio. Alla vigilia della Grande Guerra si arruolò come meccanico specialista nel corpo del Genio nel quale era inserita il germe dell’aviazione italiana. Serio, scrupoloso, ricevette attestati di stima dagli assi più gloriosi e da piloti sconosciuti, molti dei quali non sarebbero mai tornati da una missione di combattimento. A uno in particolare, del quale purtroppo non conosciamo il nome, con affetto dedicò diversi brani del suo diario, partecipando alle sue preoccupazioni. “Gli chiesi allora del fratello, e lui espresse tutta la sua costernazione. Saperlo a combattere sulle montagne lo addolora. Le marce, le granate, il fango, il disordine a cui pare non possa resistere più delle altre piccole tragedie che porta la guerra. Lui si sente in colpa, quasi al sicuro sul suo fragile apparecchio.”

Al termine del conflitto vittorioso, pur nel clima generale di smobilitazione, grazie alle sue apprezzate capacità, riuscì a rimanere nel Corpo Aeronautico Militare. La mattina del 2 febbraio del 1922 Omobono Irrequieti scompare mentre sta collaudando un aereo. In realtà, non abilitato al volo, doveva effettuare dei normali controlli a terra su un motore. Già in tarda serata, si teme ormai il peggio, vengono avviate scrupolose ricerche sulle colline che circondano il campo di volo dal quale è decollato. Viene interrogato il giovane apprendista che lo ha assistito nella messa in moto avviando a mano l’elica, che ricorda la sua espressione profondamente turbata. Di Omobono non c’è traccia fino al novembre del 1924, quando l’Ansando SVA 9 viene ritrovato, perfettamente integro, occultato all’interno di una cascina abbandonata. La famiglia lo cerca disperatamente, la sua foto viene diffusa sui giornali locali, si interpellano gli ospedali, le stazioni dei Reali Carabinieri. Un amico della famiglia Irrequieti, l’Ingegnere Alberto Casentino, crede di riconoscerlo in Argentina, durante un raduno aviatorio a Rio Lujan, nei dintorni di Buenos Aires. Lo avvicina, ma l’uomo, rispondendo in perfetto spagnolo, lingua che Omobono non aveva mai conosciuto, sorridendo si congeda dicendo che si tratta di un errore, di un palese caso di simiglianza fisica. Il giorno dopo, ma può trattarsi di una semplice coincidenza, il Casentino torna sul luogo, ma quell’uomo è scomparso e non riesce a reperire informazione alcuna sul suo conto.

Una sera di gennaio del 1928 un uomo si presenta al cancello di Villa Irrequieti. È Omobono, le sorelle non hanno dubbi, lo riconoscono immediatamente. Lo accompagna una donna cilena, avvolta negli abiti tradizionali della sua terra natia. Le sorelle, Egiziaca parla correntemente sei lingue e tra queste lo spagnolo, apprendono che è la moglie. Lo sguardo di Omobono è assente, non parla, viene immediatamente chiamato il dottore di famiglia. Le sue condizioni fisiche appaiono perfette, il corpo è asciutto e muscoloso come sempre, ma viene diagnosticata una forte intossicazione, forse da oppio. Trascorre le giornate su una poltrona in giardino, imitando con la bocca il rombo dei motori di aeroplani. Le sorelle gli parlano, gli raccontano gli eventi accaduti negli anni di lontananza, la mamma Stella morta di crepacuore pochi mesi dopo la sua scomparsa, il babbo Giulio Cesare suicida in seguito a un’avventura finanziaria conclusasi con il fallimento della ditta di pianoforti meccanici che aveva rilevato nel 1926. Irma, Titania ed Egiziaca riescono a mantenere un tenore di vita dignitoso solo grazie alla vendita di alcuni terreni di famiglia. La donna cilena, dopo aver rivelato di essere incinta, si chiude in un ostinato mutismo. Nel maggio del 1928 nasce Giulio Cesare, nel quale le tre sorelle, che avevano dubitato che il padre potesse essere veramente Omobono, riconoscono i tratti caratteristici degli Irrequieti. Nemmeno la presenza del figlio scuote Omobono che continua a sedere o a passeggiare nel parco di querce della Villa.

All’Ingegnere Casentino viene affidato l’incarico di raccogliere informazioni su quei sei anni trascorsi nel buio. Approfittando della sua professione che lo porta spesso in Sud America per sovrintendere alla costruzione di dighe e ponti in cemento armato, conduce vaste ricerche in Cile, dove la famiglia Irrequieti presume che Omobono abbia conosciuto Juanita Frances. Noleggia una vettura e gira di villaggio in villaggio mostrando la fotografia dell’amico. Uno straniero non dovrebbe essere passato inosservato in quei luoghi isolati, ma non trova traccia alcuna. Chilometri e chilometri di piste di fango, percorre sentieri nella giungla, si spinge fino alla vette della Cordigliera. La crisi economica costringe l’Ingegner Casentino a rientrare in Patria senza aver ottenuto risultati. A tutt’oggi quei sei anni continuano a rimanere avvolti dal mistero.

In seguito al matrimonio di Titania viene presa, a malincuore, la decisione di allontanare Omobono dalla residenza di Gussate. Juanita Frances non si oppone. Il malato, che non mostra segni di miglioramento, viene ricoverato nel nosocomio di Bardolino, sulle rive del Lago di Garda. Le sorelle, pensando di poter risvegliare qualcosa nel fratello, commissionano allora a un cantiere navale di Desenzano, sede in quegli anni della Scuola d’Alta Velocità della Regia Aeronautica, la costruzione della Idropoltrona. Grazie alla perizia delle maestranze specializzate del BVR (Barche e Vascelli Rossi), viene realizzata nel giro di poche settimane. Ogni mattina l’Irrequieti spinge la sua Idropoltrona lungo lo scivolo d’approdo del nosocomio e legato a una lunga cima, trascorre le sue giornate nelle acque placide del lago lombardo. Doveva suscitare una ben malinconica impressione, immobile nelle acque del lago con un anello di salvataggio attorno al collo, imitando il rumore del rombo dei propulsori aeronautici. Omobono Irrequieti, dimenticato dalla famiglia nelle tristi vicende di un nuovo conflitto mondiale, continuò a sedere sulla Idropoltrona fino all’ottobre del 1944, quando venne requisita da un ufficiale della Luftwaffe di stanza a Verona-Villafranca per essere imballata ed esaminata in Germania, probabilmente da elementi del misterioso Kampfgeschwader 200, ma la drammatica situazione bellica nella quale si dibattevano ormai gli italo-tedeschi ne impedì il trasferimento. Si spense serenamente, come serenamente sembrava aver vissuto, il 2 gennaio 1948, il giorno successivo all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

L’Idropoltrona rimase in uno scantinato del nosocomio di Bardolino fino al 1976, quando, insieme ad altri oggetti, fu rilevata da un antiquario milanese. Costui la vendette nel 1999 a un cantiere che per una singolare coincidenza porta la stessa sigla BVR, Beyond Visual Range. Grazie al sostegno della Banca Popolare di Gussate inizia la difficile opera di ripristino. Vengono restaurati i due galleggianti, danneggiati da anni di permanenza in acqua. Per quanto la funzione dei galleggianti negli idrocorsa sia intuitiva, in realtà essi servivano anche per contrastare al decollo l’enorme coppia dell’elica mossa da motori con motori da oltre 2000 cavalli. La finitura superficiale dei due scarponi è sempre stata oggetto di particolari attenzioni tanto che per il Macchi Castoldi MC72, ancora detentore, a 68 anni di distanza dal record ottenuto da Francesco Agello, furono preferiti galleggianti in legno per eliminare la resistenza aerodinamica dei rivetti necessari per una struttura metallica.

Tra le vicende narrate nella storia dell’Idropoltrona si nascondono tre elementi fondamentali della cultura del Novecento. Si tratta di un movimento e di due autori. Manda una mail a azzini.en@tiscali.it se sei riuscito a identificarli tutti e tre o se addirittura ne hai trovati altri al di là di quelli che sono stati inseriti consapevolmente.